Errare in Solitudine: Dear Esther


Parlare di walking simulator pare oggi molto meno strano di quanto non lo fosse qualche anno fa.
Se ce lo avessero detto quando ancora non esistevano non ci avremmo mai creduto, eppure, all’alba del 2017, essi sono diventati un genere a sé stante, ormai completamente sdoganati dal puerile concetto che “sono giochi in cui non si deve fare niente”.

Proprio in virtù di tale maturità, che ormai ci piace dare per scontata, salteremo a piè pari la parte della critica ad un gameplay oggettivamente assente, concentrandoci su Dear Esther per ciò che è, in occasione del recente rilascio della nuova Landmark Edition del gioco, che apporta qualche piccolo ritocco (perlopiù tecnico) alla produzione ma non né altera in nessun modo l’essenza.

Oggi come nel 2012, o addirittura nel 2008 se consideriamo la primissima incarnazione uscita del gioco, muovere i primi passi su quel molo abbandonato di un’imprecisata isola delle Ebridi regala sensazioni quasi del tutto inedite per un videogioco, catapultandoci all’istante in un mondo fatto di suggestioni e di riflessione, pervadendoci di una sottile inquietudine di cui è difficile decifrare l’origine.
“Cara Esther…”, iniziano così molti dei numerosi dialoghi a senso unico nei quali si lancerà il narratore; narratore che risulterà difficile inquadrare fin da subito, facendoci spesso domandare quale sia la sua identità e a chi siano veramente rivolte le sue parole.
I suo monologhi, poi, sono volutamente vaghi e spetterà solo al giocatore cogliere o meno riferimenti veri o presunti tra le linee vocali.

Esiste forse un luogo più bello dove perdersi?

Gran parte del fascino di Dear Esther, che ricordiamo essere stato il titolo in seguito al quale è stato inaugurato l’intero filone dei walking simulator, deriva dalla libertà data in mano al giocatore che, forse persino di più di quanto non accada in un sandbox o in un open world, dona veramente al fruitore la possibilità di vagare.
Una “libertà” ed un “vagare” comunque profondamente diversi da quanto inteso solitamente nel medium, in genere confinante all’accezione più materiale i due termini sopracitati.
Questa sorta di escapologia adottata da Dear Esther per scavalcare i canoni classici del videogioco si traduce in una LIBERTÀ, da parte del giocatore, di attribuire alle cose la propria personale interpretazione e in un VAGARE con la mente verso destinazioni ignote, prendendo come punto di partenza le parole, i simboli e le suggestioni mai del tutto comprensibili che il gioco ci offre.

Suona buffo dirlo, ma personalmente le sezioni più intense che abbiamo visto in Dear Esther le abbiamo sperimentate fermandoci, lasciando inermi mouse e tastiera e facendoci rapire da una porzione di mondo quasi alieno, fissandoci ora sulle fredde rocce della scogliera, ora su una stalagmite protesa verso l’alto, ora sui bagliori oceanici di una Luna a noi sconosciuta.

Volendolo, si può completare Dear Esther nel giro di un paio di ore scarse, pure meno se deciderete di dirigervi verso la vostra “destinazione” tirando dritto senza guardare in faccia a nessuno.
Potete farlo, davvero. Non troverete nemici a sbarrarvi la strada o puzzle a complicarvi la vita. Sarete soli, sempre e comunque.
Approcciare Dear Esther in maniera “tradizionale”, aspettandovi semplicemente che vi venga assegnato un obiettivo da portare a termine e, non trovandolo, imponendosi come alternativa di arrivare ai titoli di coda, tuttavia, vorrebbe dire sprecare i vostri soldi.

Talvolta, viene solo voglia di fermarsi per dedicarsi alla contemplazione.


In fin dei conti, Dear Esther è soltanto una passeggiata. Un lungo camminare da un punto di partenza ad uno di arrivo, scandito periodicamente dalle parole del narratore e dalle varie tracce sonore presenti.
Eppure, in quei vari sentieri, talvolta battuti talvolta no, che costellano il gioco è possibile trovare ben di più; non perché il titolo offra effettivamente qualcosa da fare, bensì perché tra i resti di un’imbarcazione naufragata, nella solitudine di casette in legno abbandonate e sulla roccia delle grotte dipinta da qualcuno che ormai se n’è andato da tempo, è possibile scorgere qualcosa che, pur non essendoci realmente, non potrete che avvertire.

La prima volta che abbiamo portato a termine il gioco, lo abbiamo fatto con la sensazione perenne che, ormai assuefatti al tappeto di script tipico di molte produzioni recenti, qualcosa, qualsiasi cosa, sarebbe saltato fuori all’improvviso.
“Vedrai che ora il proiettile di un cecchino ci atterrerà dritto in mezzo ai piedi” o, ancora, “quella struttura è troppo sospetta: jumpscare in vista!” e invece…niente. Noi, la solitudine e i nostri passi. Più qualche piccola chicca che vi lasciamo scoprire da soli.

Il viaggio di Dear Esther può essere guardato da due punti di vista diametralmente opposti e, qualunque sia la vostra posizione a riguardo, avrete comunque ragione.
Mai come in questo caso, il valore dell’opera risiede nella mente di chi ne fa esperienza e nella sua personale inclinazione ad accettare di buon grado quanto proposto o rigettarlo sbrigativamente.
È quanto mai difficile fornire un consiglio oggettivo in casi del genere e consigliarvi il titolo a scatola chiusa potrebbe essere un errore.
Dear Esther è stato senza dubbio un titolo importante, inaugurando un preciso filone di non-giochi difficilmente riassumibili a parole.
Se cercate un gioco tradizionale, con un gameplay che vi soddisfi fareste bene a guardare altrove.
Se, invece, quello che cercate è un’esperienza diversa, lenta e molto più riflessiva di quanto possa sembrare a prima vista e non vi spaventa il fatto che, per quanto possiate sforzarvi, non troverete una spiegazione chiara ed univoca che chiuda il cerchio narrativo del gioco, allora tuffatevi senza pensarci due volte in Dear Esther: vi aspetta un viaggio di cui, forse, potrete raccontare anche a distanza di anni.


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La rubrica

Una rubrica dedicata a quelle produzioni indie che non cercano in alcun modo di ricalcare le esperienze già tracciate dai giochi "canonici", ma si inerpicano per nuovi percorsi, spesso tralasciando in parte o totalmente il puro gameplay in favore di un messaggio finale che il gioco vuole trasmettere. Insomma, quando il gioco non è solo un gioco, ma vera e propria arte videoludica. In pochi possono capire fino in fondo determinati titoli e concentrarsi esclusivamente su ciò che vogliono suscitare, indipendentemente da grafica e gameplay... bene, questa rubrica è tutta per voi.

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